Io posso, tu puoi!

Mentre si prepara il viaggio del prossimo Agosto 2016, con piacere riportiamo la preziosa testimonianza di Carla Adipietro che nell’Agosto 2013 ha insegnato italiano a giovani e adulti di Kissidougou e Kankan.

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Le esperienze, si sa, fanno sempre bene, lasciano qualcosa che fa crescere. Ma alcune esperienze lasciano più di altre e segnano a fondo, da restare sempre evidenti. Sono passate solo tre estati. Tre estati fa, io ero in viaggio con la compagnia di GuineAction in Guinea, cercando di dare sostegno, vicinanza, amicizia a popoli con una vita diversa dalla nostra. L’insegnamento è una mia passione, riuscire ad incontrare l’altro in uno scambio di conoscenze e così ho avuto il privilegio di insegnare l’italiano a gruppi di ragazzi e adulti della Guinea.

A Kissidougou il mio gruppo di allievi era misto di studenti universitari, medici, insegnanti e anche alcuni curiosi, mentre a Kankan si trattava soprattutto di studentesse liceali beneficiarie del sostegno dell’associazione ed uno studente di medicina. Subito ho notato la sete con cui venivano accolte e richieste le nozioni che trasmettevo usando un gessetto, una specie di lavagna ricavata da una lastra di compensato e uno straccio bagnato alla pioggia della grondaia usato per cancellare.

A Kankan facevamo lezione nel cortile sul retro inutilizzato di un bar, le ragazze portavano il gesso, lo offriva lo zio di una di loro e la lavagna la spostavo io a mano e la poggiavo tra una sedia e il muro. Cancellavo e riempivo di nuovo la lavagna di nuove parole, regole grammaticali, tutto accuratamente riportato su ciascuno dei venti, trenta quaderni. Non mi sono soffermata a banali paragoni, che pure verrebbero spontanei, col modo di accogliere insegnamenti in alcune delle nostre scolaresche, ma ho voluto guardare oltre per capire meglio chi mi stava di fronte. Notavo l’attenzione e la puntualità con cui il verbo che coniugavo non poteva essere pronunciato solo una volta da me, non bastava, doveva pronunciarlo anche Blocus e Gérard e soprattutto Émile. Dovevano ripetere, per essere sicuri di aver imparato bene. Madou e Odile dovevano venire a scriverlo e gli altri aspettavano il proprio turno, per essere sicuri di scriverlo bene. Dopo che tutti avevano capito l’uso di una preposizione, me ne avevano spiegato la traduzione e l’uso in francese, Émile ancora diceva di non aver capito e allora Soungoirée lo riprendeva e glielo spiegava lui: non voleva che rallentasse la lezione. Dovevamo infatti sbrigarci a finire la lezione prima del tramonto, perché non avevamo elettricità. Ognuno di loro era interessato non tanto a portare a casa un quaderno pieno di cose scritte, quanto ad imparare una lingua, conoscere una cultura, saperne di più.

Théo, il professore di matematica, non poteva lasciare le sue centinaia di alunni (le loro scolaresche nel pubblico sono di duecento elementi, mentre nel privato di un centinaio) per il recupero estivo e non ha potuto frequentare tutto il corso di due settimane, intense, mattina e pomeriggio, dalle 9:00 alle 12:00 e dalle 15:00 alle 18:00. Théo, come alcuni lavoratori di Aved (associazione locale partner di GuineAction), hanno dovuto chiedere ad altri gli appunti sull’uso degli articoli e degli aggettivi. I ragazzi in Guinea crescono con l’idea che qualsiasi attività si svolga, si impara qualcosa, si conosce qualcosa di nuovo. Il tempo speso ad assimilare conoscenze fa arricchire tanto da accorciare la vita, perché fa crescere prima.

Dopo una giornata di lezione assegnare un compito per casa non era proprio cosa facile. Pensavo agli allievi, al fatto che avrebbero dovuto prima raggiungere casa, poi magari aiutare la propria famiglia (alcuni svolgevano mansioni nei campi insieme ai propri genitori), poi aspettare le prime luci del mattino oppure utilizzare motori a gasolio per produrre elettricità per l’illuminazione necessaria per studiare di sera. Al mattino seguente dovevano procurare l’acqua per la famiglia e prepararsi per ripartire e tornare a lezione. Mi sentivo quasi crudele a chieder loro di impegnare del tempo extra per studiare. Ma lo feci, perché un insegnante deve avere il modo per capire se quello che cerca di trasmettere viene recepito. Lo stupore mi pervase quando, un giorno, Jean portò una lunga lettera, con qualche errore, che poi abbiamo corretto insieme, ma pregna di entusiasmo e riconoscenza. Con lui anche altri manifestavano gratitudine non solo per il corso, ma anche per le correzioni dei temi svolti a casa; ci fu quasi una gara, giorno dopo giorno, a suon di lettere.

L’ultima lezione a Kissidougou fu proprio la lettura di una mia lettera rivolta a loro, scritta con un linguaggio che ormai potevano comprendere.

Auguro a tutti di vivere un’emozione come la mia di quel giorno, in una stanzetta di mattoni senza infissi alle finestre, con una lavagna di compensato, un gesso comprato da noi, un brandello di t-shirt bagnato di pioggia, tante menti pensanti, occhi aperti e cuori riconoscenti.

Lo scambio culturale riserva facilmente delle sorprese, come quando Marie Madeleine scrisse in una sua lettera che sognava che le donne del suo paese non dovessero più sposarsi. Quando le chiesi spiegazioni, pensando al matrimonio come a qualcosa che invece io sognavo per me e per le donne come me, mi rispose che le donne da lei si sposavano per necessità, non per vocazione. Senza istruzione né professione infatti, prima o poi si diventa un peso per la famiglia e si spera di essere accolti da un uomo, non importa bene chi.

Anche l’ultima lezione a Kankan fu stupefacente. Le ragazze mi chiesero di passare a salutare le loro famiglie prima del corso. Mi prese una di loro e mi portò in motorino in giro per la città di casa in casa. A dir poco emozionante fu vederle cantare in coro da motorini diversi: “Sono un ragazzo fortunato, perché m’hanno regalato un sogno, sono fortunato perché non c’è niente che ho bisogno” che avevano imparato il giorno prima. A casa ci aspettavano madri emozionate dalla gratitudine e padri orgogliosi che chiedevano di scattare una foto ricordo. A casa di Christine erano già in posa mentre lei ancora trasportava la carriola con bidoni d’acqua appena presa dal pozzo più vicino.

Fu proprio Christine, la più brava di quel corso, a suscitarmi delle strane e sottili emozioni mentre coniugava alla lavagna il presente indicativo del verbo potere. Mentre Roberto le scattava una foto, io pensavo a quanto sarebbe stato importante quel momento, a quanto è significativo ed importante coniugare davanti a tutti, su una lavagna di compensato, in un cortile alberato, il presente indicativo del verbo potere.

Perché se ci aiutiamo, tutti possiamo “sfruttare” le doti che abbiamo. Io posso dedicare il mio tempo e le mie capacità a te che puoi apprendere anche grazie a me, e qualcuno, anche da un altro continente può aiutarti a studiare affinché tutti possiamo crescere in maniera più equa. Affinché tutti possiamo conoscerci e abitare questo mondo da fratelli, quali siamo.

Carla Adipietro

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