La Guinea, dopo Ebola il COVID-19
Siamo convinti che il grado di civiltà di una società sia legato alle priorità che vengono date alla scuola. Le immagini che pubblichiamo insieme a questo articolo parlano da sole: distanziamento, igiene e uso di mascherine, anche se artigianali, sono osservati con grande attenzione. Sono i nostri ragazzi della 6° elementare che, dopo il lockdown, tornano a scuola per prepararsi all’esame.
Ci auguriamo che la serietà dei ragazzi de “La Pépinière” di Kissidougou possa essere contagiosa ed insegnare anche a noi italiani cosa significhi la parola “responsabilità”. E ci auguriamo il massimo impegno dello Stato italiano per la scuola, come massimo è l’impegno di don Pierre e degli amici di AVED in terra africana.
Pubblichiamo per intero l’articolo “La Guinea ha fatto esperienza con Ebola. Ma forse non basterà” preso dal sito di CARITAS ITALIANA. L’autore è Federico Mazzarella.
(Preso da: https://www.caritas.it/home_page/attivita_/00008781_La_Guinea_ha_fatto_esperienza_con_Ebola__Ma_forse_non_bastera.html)
La paura del Coronavirus, al di là d’ogni retorica, ha davvero per molti aspetti unificato l’umanità: ormai in tutti i paesi del mondo, non importa quanto distanti o diversi fra loro, è un triste rito quotidiano e collettivo attendere la comunicazione dei dati ufficiali sui nuovi casi e sulle vittime della giornata.
Anche nell’Africa subsahariana, anche in Guinea, l’ansia di informarsi continuamente sull’andamento della pandemia caratterizza le giornate di molti. Il paese è alle prese con il virus dal 13 marzo, da quando un cittadino belga, residente in Guinea da ottobre e di ritorno da Bruxelles dopo una lunga vacanza in Francia, ha accusato i primi sintomi ed infine ricevuto la temuta diagnosi (1).
In quella data, il virus non è arrivato in paese qualunque: la Guinea è uno dei luoghi più poveri del mondo e, soprattutto, è il paese che nel suo recente passato ha vissuto l’Ebola. Così, fra paure vecchie, nuove e rinnovate, il paese attende lo svolgersi degli eventi.
Nuove paure, vecchie debolezze
I sistemi sanitari dei paesi africani sono quasi tutti impreparati a una pandemia delle proporzioni di quella del Covid19: prospettiva particolarmente preoccupante, come esplicitamente segnalato dall’Organizzazione mondiale della sanità, che da tempo ha lanciato l’allarme per il continente africano (2). Fra i più deboli e inefficaci, il sistema sanitario guineano attende con inquietudine l’accelerazione del contagio.
I casi registrati nel paese a metà aprile erano 372, e il 15 aprile sarà ricordato come la data della prima vittima accertata. Pochi casi, forse fin troppo pochi: il dato, più che altrove nel mondo, non offre un’immagine chiara di quanto sta accadendo e quanto potrebbe presto accadere: «I kit sanitari per eseguire i test sono già esauriti, e fuori dalla capitale neanche li hanno. I test non si eseguono: non sappiamo quanti casi ci sono in Guinea, nessuno può saperlo con certezza», informa asciutto l’animatore di un’organizzazione umanitaria nella capitale. Il paese non ha un efficace sistema di controllo e di analisi dei dati medici sul territorio: quella che sta iniziando rischia di essere una catastrofe silenziosa (3).
Con un sistema sanitario in crisi cronica, in Guinea un’emergenza si aggiunge a un’altra. Ci si rincuora con qualche buona notizia, nessuna con un vero fondamento scientifico: gli africani sono forti, passano la vita combattendo la malaria; questo virus colpisce gli anziani e la Guinea ha una popolazione giovanissima (il 41,2% è sotto i 14 anni, il 60,52% sotto ai 24, mentre solo il 3,9% è sopra i 65 anni); ancora, questo virus non ama il caldo e la Guinea ha un clima tropicale. Insomma, si spera nel meglio, ma ci si prepara al peggio. «È il panico vero e proprio. Guardiamo le vostre file di bare a Bergamo su YouTube: se la migliore sanità del mondo sta vivendo una simile catastrofe, cosa aspetta noi che abbiamo pochi e sforniti ospedali?».
Sono paure ben fondate. In Guinea le crisi si incontrano e si aggravano a vicenda: in Guinea 576 donne su 100 mila e 53 bambini su mille muoiono durante il parto, e solo il 34,1% della popolazione ha accesso a servizi igienici (4). Lunga è la lista delle pandemie che in Guinea sono da sempre endemiche: malaria, dengue, tubercolosi, colera, diarree, tifo, epatiti, meningite… L’abitudine di recarsi all’ospedale, in un paese con 0,3 posti letto ogni mille abitanti, non è radicata: la sanità è quasi tutta a pagamento, costituisce una fra le spese più onerose per le famiglie, ma raramente è di buona qualità. Quando lo è, si tratta di sanità privata, ancora più cara. Gli ospedali sono pochi, i farmaci sono da comprare privatamente e portare in ospedale, i trasporti – prima e dopo la degenza – sono a pagamento. Nessuno con un po’ di febbre e la tosse penserebbe mai di recarsi all’ospedale: i malati di Covid19 che ci andranno, lo faranno per l’urgente bisogno di un ossigeno che non troveranno.
Il Covid19 porta dunque allo scoperto problemi ben più datati e strutturali. Soprattutto, la grande debolezza della sanità locale riguarda le risorse umane. Le mascherine si possono comprare, i kit distribuire, e – come i cinesi hanno insegnato – anche gli ospedali si possono tiare su in 10 giorni: quello che non si improvvisa sono medici preparati e abbastanza numerosi da far fronte alle urgenze in ogni loro fase, e la Guinea non ha più di 0,7 medici ogni mille abitanti (5)…
Misure severe, capitale isolata
In questo quadro, molte sono le misure che il governo ha faticosamente preso e poi applicato con severità, laddove possibile: dal 13 marzo è stato decretato il coprifuoco dalle 21 alle 5 in tutto il paese, sono stati chiusi i mercati dopo le 16, vietate le concentrazioni di più di 100 persone, sospesi i voli commerciali con paesi toccati dal virus, chiusi gli spazi aerei, chiusi luoghi di culto e scuole, vietati gli eventi pubblici, ridotti gli orari di lavoro (in un paese in cui parlare di lavoro in remoto non ha senso), iniziata un’inedita pulizia straordinaria delle zone periferiche della città. Misure già prolungate almeno fino al 15 maggio. Sono stati anche messi in funzione gli ospedali in disuso, o ancora in costruzione, per facilitare l’ospedalizzazione dei casi più gravi e isolare i malati ordinari dai casi di Covid19.
La capitale, inoltre, è isolata: una volta entrati o usciti non si torna indietro. Il grande incubo, infatti, è che l’infezione si propaghi nei quartieri poveri della capitale Conakry (che conta 2 milioni abitanti, tre quarti dei quali nei quartieri più poveri e privi di servizi). L’ambiente ideale per la diffusione di un patogeno: qui le precarie condizioni igieniche e abitative, le strade e le case piccole buie e sovraffollate, le modalità di trasporto in comune in taxi sovrautilizzati, oltre all’impossibile smaltimento di rifiuti e acque nere, non consentirebbero alcuna difesa una volta iniziata la propagazione. L’unica possibilità è agire d’anticipo, con isolamento e blocchi. E soprattutto con la prevenzione: dal 18 aprile sarà obbligatorio per tutti portare ovunque e in ogni caso la mascherina, evento senza precedenti in Guinea, e dotarsi di kit igienici in luoghi pubblici.
Ma non basta. Viaggi e spostamenti in una società subsahariana sono una necessità vitale per ogni attività: i guineani e le loro città vivono di commercio e mercati, imprescindibili tanto per clienti e famiglie quanto per i venditori, che se non lavorano non hanno di che mangiare entro la stessa giornata. Non poter entrare o uscire da una città o un villaggio vuol dire dunque paralizzare un polmone commerciale ramificato e legato a un complesso rapporto di interdipendenza con il suo contesto regionale, oltre che rischiare di esaurire una vena economica forse in modo permanente. Difficile prevedere la capacità di tenuta di una società complessa e in tensione perpetua, come la possibilità di mantenere a lungo l’ordine pubblico: questo spiega la cautela nell’introdurre simili limitazioni, peraltro impossibili da imporre in modo integrale sulle 24 ore, da parte delle autorità. Le violazioni dei divieti, d’altronde, non sono senza motivazione: «Meglio morire forse di virus fra un mese, che morire di certo di fame domani», chiosa non senza realismo un amico taxi-man di Kankan, nel nord del paese. Sembra di risentire un triste e altrettanto efficace slogan, più volte scandito dai migranti in partenza per l’Europa: «Meglio farsi mangiare dai pesci là da voi, che dai vermi qua da noi». Alla gioventù della Guinea mancano molte cose, ma non il senso della realtà.
L’alloggio? Serve per dormire…
Ma le ragioni che rendono un confinamento sanitario estremamente difficile sono anche più complesse. Il popolo guineano vive di contatti fisici vivificanti e simbolici, che vanno dagli eventi pubblici alle dense unità abitative: ciò che in Europa può sembrare faticoso e sfibrante, come stare settimane chiusi in casa, per un guineano è del tutto inconcepibile. La vita in Guinea (affettiva, lavorativa, sociale) si svolge soltanto all’esterno, in spazi aperti: l’ambiente domestico, per la metà dei casi privo d’acqua corrente e di elettricità, serve giusto per dormire, nelle zone rurali anche in dieci nella stessa stanza. Se si sta in casa intere giornate, è solo perché si è gravemente malati.
Non a caso molte sono le differenze fra gli interventi di contenimento fra la zona rurale e la città. Gli sforzi di contenimento condotti dalle autorità sono concentrati nelle aree urbane, per prevenire i rischi legati alle pessime condizioni igieniche soprattutto nelle periferie, mentre sembra che le misure difettino nel resto del paese, meno densamente popolato, ma con servizi sanitari più scarsi, spostamenti in transito molto più frequenti e soprattutto un’esposizione maggiore alle frontiere.
Difendersi giocando d’anticipo
«Siamo abituati alle epidemie, siamo il paese dell’Ebola. Anche se forse questa volta è diverso», riflette un medico della regione forestale, nel sud del paese, ricordando gli sforzi fatti da lui e dai suoi colleghi in prima linea pochi anni fa. Ricorda che l’Ebola era ben più letale, con un tasso di mortalità oltre il 50%, ma difendersi era in realtà più facile, evitando i contatti fisici con i malati: il Coronavirus invece si diffonde per via aerea e per mezzo di vettori asintomatici. Una minaccia magari meno letale, ma diversa e più difficile da combattere.
All’apparire di Covid19, il pensiero di tutti, in Guinea è corso all’Ebola fin dal primo istante. Tutti ricordano che i guineani nel 2014 e 2015 hanno vissuto una delle peggiori epidemie che l’Africa ricordi in epoche recenti, e questo ha lasciato in loro conseguenze psicologiche evidenti. Ben 2.543 guineani morirono e almeno 3.814 furono contagiati in 20 mesi; per settimane il paese fu percorso da un’autentica psicosi, che di fatto interruppe la vita familiare, economica e sociale, con danni all’economia difficilmente calcolabili, e con interi villaggi che sparirono letteralmente. Un incubo che nessuno oggi vuole rivivere, accompagnato da una serie di errori che nessuno vuole ripetere: fra tutti, i danni dell’incredulità, del ritardo, della scarsa prevenzione.
Così in Guinea è bastato parlare di virus che, da subito, in molti luoghi pubblici, di culto, persino in case private, le persone avevano già recuperato gli strumenti di igiene di pochi anni prima, soprattutto rubinetti di plastica con acqua disinfettata. In nessuna farmacia mancavano gel e disinfettanti, e fin dall’inizio in pochi tendevano la mano per salutare.
La catastrofe di Ebola, insomma, non è accaduta invano. I guineani in media oggi sanno come difendersi, forse meglio di noi italiani ed europei. «Si vince solo giocando d’anticipo. Ora come allora, prevenzione e sensibilizzazione sono l’unica possibilità, prima che il disastro arrivi», assicura il direttore della Caritas diocesana di N’Zérékoré, alla frontiera con la Liberia. Anche la popolazione è molto ricettiva, persino impaziente di ricevere consigli e attrezzature: non sembra manifestarsi l’irrazionale scetticismo che accompagnò l’Ebola nelle sue prime fasi e che fece perdere tempo prezioso, fantasticando di complotti internazionali o di untori stranieri. Il problema è oggi di tutt’altra natura: «Il vero paradosso è che sappiamo bene cosa dobbiamo fare, ma non possiamo farlo: non abbiamo i mezzi». Nel 2015 l’Ebola colse la Guinea impreparata, ma una volta compresi il pericolo e la dimensione del dramma molti furono gli sforzi internazionali, dall’Europa e dall’America, per sostenere la popolazione e lo stato. «Oggi la situazione più critica e preoccupante la si vede proprio nei paesi europei che più ci aiutarono allora. Anche per loro è difficile persino difendere sé stessi, e tanto più lo è sostenere noi in questa fase. Stiamo facendo molti sforzi per cavarcela da soli con i nostri mezzi, ma sappiamo che non basterà».
Impatto serio sull’economia
La crisi sanitaria non è ancora iniziata, ma già il virus sta facendo i primi danni a livello sociale e economico. Le privazioni legate alla sospensione delle attività economiche su larga scala impongono infatti già oggi sforzi d’assistenza importanti.
L’impatto è stato forte fin dai primi giorni, quando i guadagni delle famiglie legati al commercio, soprattutto piccolo e al dettaglio, si sono sostanzialmente interrotti. Anche l’attività agricola, che impiega il 76% della popolazione nel paese (6), se priva di sbocchi commerciali per troppo tempo rischia di subire contraccolpi pesanti e potenzialmente permanenti. Il popolo guineano per sopravvivere conta solo su sé stesso e sulla forza della rete sociale e familiare, che rafforza continuamente. Non c’è un welfare vero e proprio; ogni bene e sevizio, anche sanitario, è a pagamento, non solo quelli legati al Covid19. Gli anziani, più a rischio per ogni malattia, non hanno una pensione bastante per l’autosostentamento, mentre le casse pubbliche di previdenza sociale sono deboli e i risparmi privati, in un’economia di sussistenza, sono esigui. Si conta per tutto su parenti e figli, per questo numerosi, e se l’economia non gira per produrre quotidianamente una minima massa critica di benefici, gli effetti non tardano a farsi sentire. Ma non sono da sottovalutare neanche i rischi di danni sociali sul medio periodo, come l’aumento della migrazione clandestina, se i giovani non trovano un minimo guadagno per troppo tempo, cosi come l’incremento del traffico di esseri umani anche per la vendita di organi, o lo sfruttamento sessuale e i matrimoni precoci per le giovani donne, ridotte nei casi più disperati a fonte dell’unico reddito familiare (7).
La Guinea, peraltro, teme di essere investita da una crisi seria anche sul lungo periodo: come il resto del mondo, ma in misura maggiore. La crescita del Pil, stimata al 6% per il 2020 prima della crisi del virus, non supererà l’1% secondo le più ottimistiche aspettative. L’inflazione è già aumentata, anche per beni essenziali, mentre le restrizioni agli spostamenti affliggeranno molto il già debole settore turistico, e la contrazione delle attività economiche provocherà una netta riduzione delle entrate fiscali, colpendo le già scarse performance dei servizi pubblici (8). La dipendenza del paese dall’estero è e resterà profonda, tanto sul versante delle importazioni che su quello delle esportazioni. La brusca contrazione della domanda di bauxite (il 94% della quale è destinata a una Cina oggi in affanno), che rappresenta il 91% del totale dell’export guineano, si è già manifestata. Sul medio e lungo periodo, i contraccolpi internazionali non potranno che aggravarsi: il rallentamento delle economie europee e americana provocherà una riduzione della domanda di prodotti dalla Cina, fabbrica del mondo, e la conseguente contrazione della domanda dalla Cina nei confronti dei suoi numerosi satelliti, soprattutto paesi come la Guinea (9).
L’impegno di Caritas Guinea
Fin dalle prime fasi dell’epidemia, la Caritas nazionale – Ocph ha reagito mettendo a frutto l’esperienza delle diverse urgenze gestite negli ultimi anni, soprattutto l’Ebola. Nella Capitale Conakry, ma anche a N’Zérékoré e nelle periferie, si sono già svolte diverse sessioni di sensibilizzazione in quartieri e villaggi, di formazione a norme igieniche elementari, di distribuzione di kit sanitari e rubinetti per acqua disinfettata. Un’esperienza ormai collaudata, messa al servizio delle vittime potenziali di una nuova emergenza. Basterà?